Il judo (柔道 jūdō Via della Cedevolezza) è un’arte marziale, uno sport da combattimento e un metodo di difesa personale giapponese formalmente nato in Giappone con la fondazione del Kōdōkan da parte del Prof. Jigorō Kanō, nel 1882. I praticanti di tale disciplina sono denominati judoisti o più comunemente judoka (柔道家 jūdōka).
« Il jūdō è la via (道?) più efficace per utilizzare la forza fisica e mentale. Allenarsi nella disciplina del jūdō significa raggiungere la perfetta conoscenza dello spirito attraverso l’addestramento attacco-difesa e l’assiduo sforzo per ottenere un miglioramento fisico-spirituale. Il perfezionamento dell’io così ottenuto dovrà essere indirizzato al servizio sociale, che costituisce l’obiettivo ultimo del jūdō.
Jū (柔) è un bellissimo concetto riguardante la logica, la virtù e lo splendore; è la realtà di ciò che è sincero, buono e bello. L’espressione del jūdō è attraverso il waza, che si acquisisce con l’allenamento tecnico basato sullo studio scientifico.[3] »
(Jigorō Kanō)
Il jūdō è in seguito divenuto ufficialmente disciplina olimpica nel 1964 in occasione delle Olimpiadi di Tōkyō, e ha rappresentato alle Olimpiadi di Atene 2004 il terzo sport più universale con atleti da 98 diversi Paesi, mentre alle Olimpiadi di Londra hanno partecipato 387 atleti da 135 diversi Paesi
Contesto storico-politico
Kyuzo Mifune (a sinistra) e Jigoro Kano (a destra).
Il contesto storico era particolare: Il 1853 aveva segnato una data importante per il Giappone: il commodoro Matthew C. Perry, della Marina Militare degli Stati Uniti d’America, entra nella baia di Tokyo con una flotta di quattro navi da guerra (le cosiddette Navi Nere) consegnando a dei rappresentanti dello shogunato Tokugawa un messaggio col quale si chiedevano l’apertura dei porti e trattati commerciali. Il Giappone, che fino a quel momento aveva vissuto in completo isolamento dal resto del mondo (Sakoku), grazie alla Convenzione di Kanagawa, apre finalmente le frontiere agli stranieri. Dopo l’abdicazione dell’ultimo shogun Tokugawa Yoshinobu avvenuta nel 1867, il potere imperiale di fatto riacquisiva il controllo politico del Paese, e contestualmente alla Restaurazione Meiji, la promulgazione dell’editto del 1876 col quale si proibiva il porto del daishō decretava la scomparsa della casta dei samurai.
L’Imperatore Meiji nel 1872. La sua politica di apertura alla cultura occidentale comportò profondi mutamenti nella vita dei giapponesi, tra cui l’accantonamento delle arti marziali tradizionali.
Scrive Troni: «Agli ex daimyō il governo assegnò titoli nobiliari di varia classe, a seconda della importanza delle loro famiglie ed una indennità pecuniaria proporzionale alle loro antiche rendite, in buoni del tesoro. Venne infine dichiarata la eguaglianza fra le quattro classi dei samurai, contadini, artigiani e mercanti. I corpi armati dei samurai vennero sciolti […] e si determinò una nuova divisione delle classi sociali che si distinsero infatti in: nobiltà, borghesia, e popolo. Fra le molte riforme […] bisogna ancora ricordare l’adozione del sistema metrico decimale e del calendario gregoriano».[6]
Vi furono importanti cambiamenti culturali nella vita dei giapponesi dovuti all’assorbimento della mentalità occidentale e naturalmente ciò provocò un rigetto di tutto ciò che apparteneva al passato, compresa la cultura guerriera che tanto aveva condizionato la vita del popolo durante il periodo feudale. Il jū-jutsu, essendo parte integrante di questa cultura, lentamente scomparve quasi del tutto. Inoltre, le arti marziali tradizionali vennero ignorate anche a causa della diffusione delle armi da fuoco e molti dei numerosi dōjō allora esistenti furono costretti a chiudere per mancanza di allievi; i pochi rimasti erano frequentati da ex-samurai lottatori professionisti pagati appunto per combattere (essendo il loro unico mezzo di sostentamento) e che talvolta venivano coinvolti in episodi di violenza o crimini. Questo influenzò ulteriormente il giudizio negativo del popolo nei confronti del jū-jutsu nel quale vedeva un’espressione di violenza e sopraffazione.